mercoledì 25 marzo 2020

NETA Torino. una testimonianza di due epidemie

Le due epidemie di Neta, 104 anni: “Come la Spagnola, finirà”

La centenaria che ha vissuto due pandemie: “Vedrete, ce la faremo”
Gli ospedali improvvisati all'epoca della Spagnola
Gli ospedali improvvisati all'epoca della Spagnola
TORINO. Seduta accanto alla finestra del salotto di casa, nonna Neta passa il pomeriggio con il giornale delle parole crociate in mano. Oggi c’è il sole. E sono due settimane che nessuna delle vecchie amiche viene a bussare alla sua porta. «Ma i tempi sono questi, che dobbiamo farci? Io sto bene, benissimo, compatibilmente con l’età. Mia nipote si prende cura di me, come fosse una mamma. Io aspetto».
Anna «Neta» Novero - classe 1916 - aspetta come ha fatto tutta sua vita. Aspetta e prega. Perché lei lo sa che tutto questo grande affanno finirà. Come è terminata la seconda guerra mondiale che lei ha attraversato non più da ragazzina, come sono finiti gli anni della giovinezza, come sono scappati gli affanni con l’incanutirsi dei capelli. Aspetta perché sa che anche il Coronavirus passerà, proprio come è passata la «Spagnola» la grande pandemia influenzale che travolse il mondo, da New York a Mosca, passando per ogni città, paese o borgata dall’Europa, all’America, all’Australia, dal 1918 al 1920. Il suo universo di bambina, durante la prima guerra mondiale è lo stesso di oggi: Nole Canavese, una manciata di case all’imbocco delle valli di Lanzo. «Sono nata in questo paese il 15 di marzo del 1916. Mia mamma si chiamava Maria e mio papà era Battista, ed io la loro seconda figlia. La prima fu Lucia, che aveva due anni più di me».
La storia racconta che la Spagnola fece 25 milioni di morti, ma anche il doppio secondo alcuni. Narra di famiglie sterminate. Di bambini stroncati senza cure, o quasi. Di ospedali improvvisati, di grande paura. Ecco, Anna Novero è una delle poche - anzi, una delle ultime - testimoni di quegli anni. Di quei lutti che hanno segnato migliaia di famiglie, in città come nelle campagne. Quando le norme di comportamento generale per proteggersi dall’influenza erano poco più che dicerie. O fogli affissi agli albi pretori delle grandi città.
«Nel 1918 nacque mio fratello. Al battesimo gli misero il nome di Michelino e mia mamma e mio papà erano contentissimi quando venne al mondo. Poi, però, si ammalò. In famiglia dicevamo “ha la Spagnola”, ed eravamo tutti spaventati. Lui era piccolino, e la malattia se l’è portato via in poco tempo» racconta. L’età non ha offuscato nulla di allora. Delle pause. E delle lacrime versate in famiglia. E di ciò che venne dopo quei giorni drammatici. Mentre ovunque si contavano i morti, mentre nei paesi come nelle città ogni famiglia raccontava di un ennesimo lutto, di un’altra persona ammalata. Di un conoscente portato via dalla «Spagnola» nel giro di pochi giorni.
Nole non venne risparmiata, come non venne risparmiata Torino. Nel mese di ottobre del 1918, a Torino, i morti erano circa 400 al giorno. Ma era stata imposta la censura. Era proibito il rintocco funebre delle campane, così come gli annunci mortuari, i cortei e i funerali, per non demoralizzare la nazione. Quando gli storici tracciarono un bilancio di ciò che accadde, venne stimato un numero di morti che variava tra i 375 mila e 650 mila. Tra loro anche Michelino.
«Quando il mio povero fratello mancò, mia mamma regalò i suoi vestitini ad una vicina di casa che aveva un figlio piccolo» racconta Neta. Allora si faceva così. Era un modo di aiutarsi. Di starsi vicino. Di volesi bene anche nella povertà di quel dopoguerra. Ma poi accadde che quel bambino si ammalò. Che l’influenza che uccideva le persone giovani e forti, che stroncava i bambini, andò a bussare anche a quella porta. «E mia mamma venne di accusata di essere la colpevole. Se la presero con lei, che non c’entrava nulla. Che aveva soltanto voluto essere gentile regalando quei vestiti» ripete Neta. È il destino dei momenti di crisi, delle epidemie. Sui cerca un colpevole, anche se non c’è. Un untore, consapevole o involontario che sia. E nessuno vuol mai credere al fato.
Ecco, Anna Novero ha attraversato tutto questo. Ha vissuto la grande paura e il dolore. È diventata una giovane adulta. Ha fatto da mamma ad altri fratelli più piccini, a Michelina, nata nel 1930 ed Ornella, classe 1933. A Carlo no, nacque cinque anni dopo quel bimbo portato via dalla Spagnola. E lei era ancora piccina.
Oggi seduta sulla poltrona accanto alla finestra, assistita dalla nipote Aurelia, se ne sta lì a parlare del passato e del suo presente complicato. Guarda la tv. Commenta ciò che accade. Ha vissuto da protagonista la grande epidemia d’inizio ’900. Assiste impotente a quella del Coronavirus. «Vedrà che ce la faremo». Sì, ce la faremo, ha ragione lei, Neta. Mai arrendersi. 

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